Domenica 15 maggio alle ore 18.00 arriva al Teatro Studio di Lanciano/Treglio, diretto da Stefano Angelucci Marino e Rossella Gesini, Elena Bucci con lo spettacolo “Nella stanza di Eleonora”, di e con Elena Bucci cura del suono Raffaele Bassetti assistenti all’allestimento Nicoletta Fabbri e Gaetano Colella. Elena Bucci è una delle attrici più affermate del panorama teatrale italiano.
Negli ultimi trent’anni il suo lavoro ha dato luogo a un originale percorso culturale e creativo contrassegnato da una precisa urgenza espressiva. Fra i più importanti riconoscimenti: Premio Ubu 2016, Premio Eleonora Duse 2016, Premio Hystrio - Anct 2017.
“Per accogliere questo invito appassionato ho adattato il mio lavoro allo spazio messo a disposizione e ho rinunciato ad ogni apparato della scena per puntare sulla forza della parola e della musica. Mi sono ispirata al testo dello spettacolo per farne una lettura. In tempi nei quali il teatro tanto soffre e tanto rivive, è una bella sfida ritrovarne le radici, l’estrema sintesi e semplicità.”Dichiara Elena Bucci in relazione alla replica che la vedrà impegnata in Abruzzo.
“Eleonora Duse – prosegue Elena Bucci -, nata nel 1858 e morta nel 1924, fu attrice e capocomica. La libertà del suo agire rivoluzionò e sconvolse il teatro del suo tempo. Detestava le biografie, le autobiografie e le commemorazioni. Di lei ci restano lettere, scritti e testimonianze indirette. Per me, fu anche una donna straordinaria. C’è un tempo della vita in cui non bastano più mestiere, tecnica, lavoro, ma ci si domanda dove ci portino e cosa c’è oltre e altrove. Io ero proprio lì, quando, parlando con un amico sapiente, mi sono accorta che gli scritti e il pensiero della Duse mi avevano accompagnato per tutta la mia vita teatrale. Ho cercato un luogo che mi parlasse e dei compagni generosi, e dedicando questo lavoro a lei ho raccolto i fili delle mie inquietudini, sperando che non fossero solo mie. Non avrei mai avuto il coraggio di questa solitudine senza il calore degli amici e di questo li ringrazio. Non è stato per amor di stravaganza che ho cominciato questo lavoro in un luogo - il Palazzo di San Giacomo a Russi, in stato di abbandono - pieno di memorie storiche e personali. Dovevo creare tutte le condizioni perché fosse possibile l’intensa trasformazione che volevo. Ora si è situato in profondità e con precisione in un luogo interiore che, pur modificando il linguaggio e l’espressione, posso rintracciare in ogni momento. Lo spettacolo è davvero scritto nel corpo, senza retorica, ed è questo che cercavo, e questo è il cuore del mio lavoro su Eleonora Duse, immaginata nel momento in cui, malata e sostituita da Gabriele D’Annunzio nella Figlia di Iorio, prende il copione e recita tutte le parti, tutte le scene, tutte le figure, davanti allo sguardo allucinato di Matilde Serao, puntuale e quasi invadente osservatrice e testimone. Forse in quel momento la Duse, che recitando guariva dai danni della vita, provava a liberarsi e a vedere oltre la materia necessaria, odiata e amata, del teatro: le scene, i costumi, gli attori...forse sognava di poter volare per un attimo, come le altre arti tentavano, in uno spazio dove fosse possibile il teatro senza corpo e senza voce, libero dalla poesia inevitabile della sua continua distruzione nel qui e ora. Liberandosi della materia del teatro, forse si rinnova il contatto con la vita, da lei sempre inseguito e sfuggito. Ho attinto a lettere, scritti, testimonianze indirette che percorrono tutto l’arco della sua vita, ed il criterio di scelta è stato assolutamente personale, pur nel tentativo di comprendere e rispettare. E inevitabilmente, tentando di essere medium di qualcosa che si è molto amato, si parla di sé. Ho cercato di liberarmi da immagini indotte, stereotipi affascinanti, tentazioni estetiche e credo di avere trovato, nel coraggio e assoluta libertà di lei, una forza preziosa nell’accantonare regole e convenzioni. Allo stesso tempo, ho lavorato perché fosse possibile, anche a chi non ne avesse mai sentito parlare, attingere a qualcosa di lei. Attraverso Eleonora sono passate tante donne, nascoste in chissà quali pieghe della mia memoria.”